VALIDA LA DELIBERA ASSEMBLEARE CHE VIETA APERTURA RISTORANTE

Civile Sent. Sez. 2 Num. 9402 Anno 2019

Presidente: LOMBARDO LUIGI GIOVANNI

Relatore: SCARPA ANTONIO

Data pubblicazione: 04/04/2019

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7409-2015 proposto da:

ARP FOOD & HOSPITALITY SRL, ITALAM 86 SRL, elettivamente

domiciliate in ROMA, PIAZZA VENEZIA 11, presso lo studio

dell’avvocato LAMBERTO LAMBERTINI, che le rappresenta e difende

unitamente agli avvocati MARIANO BURATTI, PIETRO MORGANTI, MARIA

RITA CATARINELLI;

– ricorrenti –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

BERTOLONI 29, presso lo studio dell’avvocato IACOPO SQUILLANTE, che

lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7848/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/12/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/01/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, il quale ha concluso per il rigetto di ricorso;

uditi gli Avvocati Vaccarella e Squillante.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La A.R.P. Food & Hospitally s.r.l. (già M.B. s.r.l.) e la Italam 86 s.r.l. hanno proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi avverso la sentenza n. 7848/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 31 dicembre 2014, con cui, in riforma della pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Roma n. 15572/2008, è stata rigettata l’impugnazione della deliberazione assembleare adottata dal Condominio (OMISSIS), in data 16 gennaio 2006. Resiste con controricorso il Condominio (OMISSIS).

La Corte d’Appello di Roma ha ritenuto che il punto 4 dell’ordine del giorno della riunione del 16 gennaio 2006, relativo alle “delibere” da adottare in ordine alla “nuova attività” esercitata dalla B.B.C. Italia s.r.l., conduttrice dei locali di proprietà della Italam 86 s.r.l., ben potesse comprendere le valutazioni da assumere con riguardo alle canne fumarie installate al fine dell’esercizio dell’attività di ristorazione nella medesima unità immobiliare, installazione già osteggiata in pregresse decisioni assembleari negli anni 2003 e 2004. Parimenti, la Corte di Roma escludeva l’illegittimità della inibizione dell’attività di ristorazione, approvata dall’assemblea 16 gennaio 2006 in base all’art. 9, comma 2, del regolamento condominiale, il quale vieta la destinazione dei negozi ad uso “diverso da… commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”, in quanto, a dire della sentenza impugnata, l’attività di ristorazione è eterogenea rispetto all’attività propriamente commerciale, giacchè caratterizzata dalla creazione di un risultato economico nuovo rispetto alla materia prima trattata, e quindi piuttosto da intendersi come attività industriale.

Le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

In via pregiudiziale, non va disposta la riunione tra il presente giudizio e quello, contraddistinto come R.G. 27162/2017, anch’esso pendente innanzi alla Corte di Cassazione, discusso alla stessa udienza ed avente ad oggetto l’impugnazione della sentenza 6260/2017 della Corte d’Appello di Roma, trattandosi di ricorsi proposti contro sentenze diverse pronunciate in separati giudizi. Pur attenendo le cause connesse ad identiche questioni di diritto, la riunione non perseguirebbe alcun obbiettivo utile in termine di economia e minor costo dei due giudizi, nè favorirebbe la loro ragionevole durata.

I.Il primo motivo del ricorso della A.R.P. Food & Hospitally s.r.l. e della Italam 86 s.r.l. denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1105,1109,1136 e 1139 c.c. e dell’art. 66 disp. att. c.c., deducendo l’incompletezza dell’ordine del giorno dell’assemblea 16 gennaio 2006 e la non riferibilità dello stesso alla decisione poi adottata di rimozione delle canne fumarie.

Il secondo motivo del ricorso censura la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1138 e 1362 e ss. c.c. e art. 2195 c.c., quanto all’interpretazione del divieto contenuto nell’art. 9, comma 2, del regolamento condominiale ed alle nozioni di attività commerciale ed attività industriale riferite, in specie, all’attività di ristorazione esercitata dalla M.B..

II.Sono da superare le eccezioni di inammissibilità sollevate dal controricorrente, in quanto i due motivi espongono gli elementi necessari ad evidenziare le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito, ed in particolare indicano il contenuto essenziale dei documenti su cui il ricorso è fondato.

III.I due motivi di censura sono comunque infondati.

III.1.Quanto al primo motivo di ricorso, circa la mancata previsione, nell’ordine del giorno della delibera assembleare impugnata, dell’argomento relativo alla rimozione delle canne fumarie, la Corte di Appello ha ritenuto tale argomento indicato nel punto 4 del medesimo ordine del giorno o comunque ad esso riconducibile (“delibere” da adottare in ordine alla “nuova attività” esercitata dalla B.B.C. Italia s.r.l.). La decisione della questione di diritto operata dalla Corte d’Appello è conforme all’interpretazione costante della giurisprudenza, consolidatasi prima dell’entrata in vigore dell’art. 66 disp. att. c.c., comma 3, (introdotto dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, e perciò qui non applicabile ratione temporis), secondo cui, affinchè la delibera di un’assemblea condominiale sia valida, è necessario che l’avviso di convocazione elenchi, sia pure in modo non analitico e minuzioso, specificamente gli argomenti da trattare sì da far comprendere i termini essenziali di essi e consentire agli aventi diritto le conseguenti determinazioni anche relativamente alla partecipazione alla deliberazione. In particolare, la disposizione dell’art. 1105 c.c., comma 3, – che si riteneva applicabile anche in materia di condominio di edifici, in difetto di una analoga prescrizione quale quella ora contenuta nel richiamato art. 66 disp. att. c.c., comma 3, -, la quale stabilisce che tutti i partecipanti debbano essere preventivamente informati delle questioni e delle materie sulle quali sono chiamati a deliberare, non comporta che nell’avviso di convocazione debba essere prefigurato lo sviluppo della discussione ed il risultato dell’esame dei singoli punti da parte dell’assemblea. In ogni modo, l’accertamento della completezza o meno dell’ordine del giorno di un’assemblea condominiale – nonchè della pertinenza della deliberazione dell’assemblea al tema in discussione indicato nell’ordine del giorno contenuto nel relativo avviso di convocazione – rimane demandato all’apprezzamento del giudice del merito insindacabile in sede di legittimità se, come nel caso della sentenza impugnata, adeguatamente, per quanto succintamente, motivato (cfr. Cass. Sez. 2, 27/03/2000, n. 3634; Cass. Sez. 2, 22/07/2004, n. 13763; Cass. Sez. 2, 10/06/2014, n. 13047; Cass. Sez. 2, 25/10/2018, n. 27159). Nè si comprende, una volta accertato che la questione fosse comunque posta all’ordine del giorno, perchè le ricorrenti lamentino la non unanimità della deliberazione di rimuovere le canne fumarie installate sulla facciata dell’edificio (essendo presenti nell’adunanza del 16 gennaio 2006 soltanto 19 condomini su 21 complessivi), in quanto l’assemblea dei condomini ha certamente il potere di decidere a maggioranza, nell’interesse collettivo, le modalità concrete di utilizzazione dei beni comuni, anche disponendo l’eliminazione di impianti ivi collocati da alcuni partecipanti se gli stessi arrechino pregiudizio alle parti condominiali.

III.2.Circa il secondo motivo, è invece da ribadire come l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi (al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all’abitabilità dell’intero edificio, nonchè ad incrementare il valore di scambio delle singole unità immobiliari) è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393; più di recente, non massimate, Cass. Sez. 6-2, 14/05/2018, n. 11609; Cass. Sez. 6-2, 21/06/2018, n. 16384).

Nella specie, l’interpretazione fatta dalla Corte d’Appello dell’art. 9, comma 2, del regolamento del Condominio (OMISSIS), non rivela le denunciate violazioni dei canoni di ermeneutica.

La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorchè nel comma 1 prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290).

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente il divieto di destinare i negozi ad uso diverso da “commercio regolarmente autorizzato dalle autorità competenti”, secondo cui collide con lo stesso divieto l’esercizio dell’attività di ristorazione, non risulta nè contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, nè confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, nè contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica interpretazione possibile, nè la migliore in astratto.

E’ invero plausibile concludere, come inteso dalla Corte di Roma, che esuli dalla mera attività di commercio (la quale si risolve nella semplice intermediazione e distribuzione dei prodotti, di per sè consentita dalla disposizione regolamentare) l’esercizio di un’attività di ristorazione, in quanto comunque o connotata dalla trasformazione delle materie prime alimentari a fini di commercializzazione di un bene direttamente utilizzabile per il consumo con caratteristiche diverse da quelle del bene originario, e dunque volta alla creazione di un risultato economico nuovo, elemento questo distintivo delle imprese industriali ex art. 2195 c.c.; oppure consistente, in ogni caso, nella produzione di beni per la somministrazione di alimenti e bevande avvalendosi di laboratori di carattere artigianale.

Non rileva decisivamente opporre in questa sede l’interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità o dalla dottrina in ordine alla nozione normativa di commercio, ai fini della riconducibilità ad essa dell’attività di ristorazione, in quanto l’interpretazione delle disposizioni di legge (la cui erroneità è denunciabile per cassazione quale violazione o falsa applicazione di norme di diritto), regolata dall’art. 12 preleggi assegnando un valore prioritario al dato letterale ed individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore, costituisce un’operazione ontologicamente distinta dall’interpretazione contrattuale in senso stretto, avendo questa ad oggetto la determinazione della volontà dei contraenti ed essendo perciò riservata al giudice del merito (la cui decisione resta censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica o per vizi di motivazione).

IV. Il ricorso va perciò rigettato e le ricorrenti vanno condannate in solido a rimborsare al Condominio controricorrente le spese del giudizio di cassazione.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido le ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dall’art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 gennaio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 aprile 2019

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